Charles Péguy nasce il 7 gennaio 1873 a Orléans, città allora circondata dalla campagna. Nella campagna vive la gente semplice, quel “popolo” al quale Péguy sempre si vanterà di appartenere. Il padre, Desiré, falegname, muore pochi mesi dopo la nascita del figlio in seguito alle ferite riportate nella guerra contro i prussiani. La madre impara il mestiere di impagliatrice di sedie, e da lei la nonna. Charles cresce così nel rispetto del lavoro ben fatto, e presto aiuta la madre: taglia gli steli di paglia e batte la segale con il maglio. Dalla madre viene iniziato al mestiere; dalla nonna, analfabeta narratrice di storie, impara la lingua francese.
“Abbiamo conosciuto un onore del lavoro
identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia e i cuori.
Proprio lo stesso, conservato intatto nell’intimo.
Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta sino alla perfezione,
compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio…
Ho veduto, durante tutta la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito,
e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali…
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso…
Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé in sé nella sua stessa natura.”
(Da: “Il denaro”)
A 7 anni va a scuola. Il primo maestro, monsieur Fautras, è un uomo “dolce, grave, un po’ triste”. Charles è un allievo studioso e attento, e nel 1884 ottiene la licenza elementare. Theophile Naudy, direttore dell’istituto magistrale, decide che Charles deve proseguire gli studi. Con una borsa di studio municipale, il giovane va al liceo inferiore, e vi riesce bene. Nel 1891, con un’altra borsa di studio, passa al liceo Lakanal di Parigi; si presenta al concorso per l’ammissione all’università, ma viene bocciato, e allora decide di fare il servizio militare.
“I nostri antichi maestri non erano soltanto uomini della vecchia Francia.
Ci insegnavano, in fondo, la morale stessa e l’essenza della vecchia Francia,…
ci insegnavano le stesse cose dei parroci. E i parroci ci insegnavano le stesse cose dei maestri…
Quel che dicevano i parroci, in fondo lo dicevano anche i maestri.
Quel che dicevano i maestri, in fondo lo dicevano anche i parroci…
Dopo la licenza elementare mi avevano piazzato alla Scuola primaria superiore di Orléans.
Il signor Naudy mi riacciuffò, se posso dirlo, per la punta dei capelli
e con una borsa di studio del Comune mi fece entrare in sesta,
nell’eccellente sesta del signor Guerrier…
Quella grande bontà quell’affetto sollecito da tutore e da padre, quella sorta di costante vigilanza,
quella lunga e paziente e dolce fedeltà paterna, davvero uno dei più bei sentimenti umani che ci siano al mondo”.
(Da: “Il denaro”)
In quegli anni Péguy insegna, scrive i suoi primi manifesti socialisti, prende parte attiva al caso Dreyfus, difendendo l’ufficiale ebreo dello stato maggiore francese ingiustamente accusato di spionaggio a favore della Germania.
“Il nostro affare Dreyfus è l’ultimo frutto della mistica repubblicana.
Siamo gli ultimi. Subito dopo di noi comincia un’altra età, un altro mondo,
il mondo di coloro che non credono più a niente e se ne vantano.
Subito dopo di noi comincia il mondo che noi abbiamo chiamato
e continueremo a chiamare il mondo moderno. Il mondo che fa il furbo. Il mondo delle persone intelligenti;
progredite, scaltrite, delle persone che la sanno lunga,… il mondo di quelli che non hanno più niente da imparare.
Di quelli che fanno i furbi,… il mondo di quelli che non hanno una mistica…
La medesima sterilità inaridisce la città e la cristianità.
La città degli uomini e la città di Dio. E questa è la sterilità moderna”.
(Da: “La nostra giovinezza”)
Nell’agosto 1894 Péguy è ammesso all’università (Scuola normale superiore); ottobre: licenza in lettere; agosto 1895: baccalaureato in scienze. Intanto fa incontri importanti, conosce il socialista Herr, il filosofo Bergson. Ma dopo due anni lascia l’università e rientra ad Orléans senza laurearsi: ha un’opera da compiere, letteraria e sociale, e si sente già sufficientemente preparato. Comincia a scrivere Giovanna d’Arco che tra documentazione e stesure gli prenderà tre anni di lavoro. Il 15 luglio 1896 muore l’amico Marcel Baudouin; Péguy decide di mettersi al fianco di sua madre e della sorella, Charlotte, che sposerà nell’ottobre 1897. Da lei avà quattro figli: Marcel (1898), Charlotte (1901), Pierre (1903) e Charles-Pierre (1915, nato dopo la sua morte). Nel dicembre 1897 il dramma Giovanna d’Arco viene pubblicato. Ne vende una sola copia, la critica lo ignora.
Ciò che anima il socialista Péguy è il desiderio e la volontà di una salvezza radicale, integrale ed estesa a tutti. La figura paradigmatica di questo socialismo attento alla realtà e insieme escatologico è Giovanna d’Arco: in lei il bisogno di salvezza è altrettanto assoluto che nel giovane studente rivoluzionario. Nel novembre del 1900 Péguy fissa il duplice aspetto del suo socialismo:
“Noi siamo tra coloro cui non riesce per nulla di separare la rivoluzione sociale dalla rivoluzione morale,
nel duplice senso che da un lato noi non crediamo che si possa realizzare profondamente,
sinceramente, seriamente la rivoluzione morale dell’umanità senza operare l’intera trasformazione del suo ambiente sociale,
e all’inverso noi crediamo che ogni rivoluzione esteriore sarebbe vana se non comportasse il dissodamento e il profondo rivolgimento delle coscienze”.
Péguy si crede socialista, ma non è un politico, è un mistico, e abbandonerà il partito non appena ne vedrà il volto del politicante apparire sotto le affermazioni generose. Così è forte la delusione e lo sdegno provati dal giovane militante quando s’accorge che i partiti e gli uomini a fianco dei quali impegna tutte le sue energie per la realizzazione della “Repubblica socialista universale” vogliono sì trasformare gli altri, ma non se stessi, accettano di mettere a fuoco le vecchie strutture borghesi di oppressione, ma non le nuove strutture socialiste di oppressione. Il 1° maggio 1898 a Parigi è socio fondatore della “Libreria socialista Bellais”, in cui investe la piccola dote della moglie, ma in pochi mesi tutto finisce.
Solo con la fondazione dei “Cahiers” Péguy riesce a trovare la sua strada editoriale, portata avanti per 13 anni, senza denaro, quasi da solo, fino all’ultimo giorno di vita: scrive, spazza, riceve, impacchetta, corregge, ascolta, discute… Sono i “Cahiers de la quinzaine”, che escono, appunto, ogni 15 giorni, il primo il 5 gennaio 1900 per un totale di 229 numeri. È un’iniziativa culturale all’insegna socialista e dreyfusista all’inizio, sostenuta dai soli abbonati, e il prezzo dell’abbonamento è lasciato al giudizio del lettore (così ci saranno oltre 800 “abbonati” gratuiti). Sottoposti a un implacabile boicottaggio, i “Cahiers” sopravvivono per quindici anni grazie a una rete di amicizie fedeli ma ristrette.
E approda alla fede, dopo essersi staccato dal socialismo ufficiale e da quei vecchi amici che, a parer suo, hanno abbandonato il comune ideale. Non è una “conversione” nel senso proprio del termine: “Io non sono un convertito. Sono sempre stato cattolico”, confida a Rene Johannet. È del settembre 1908 la famosa frase detta all’amico Lotte dal fondo dell’abbattimento, malato, a letto: “Non ti ho detto tutto. Ho ritrovato la fede, sono cattolico”. E Péguy torna a Giovanna d’Arco, sente il bisogno di riscrivere la sua prima opera, con parole nuove: pagina dopo pagina, si dilata a dismisura, dal “Dramma” nasce il “Mistero”: Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, pubblicato nei “Cahiers” il 16 gennaio 1909, cade rapidamente nel silenzio del pubblico. Dopo un breve istante di successo, il sipario torna a calare sulle opere di un uomo che i cattolici respingo allo stesso modo di quanto hanno fatto i socialisti. Così gli altri due Misteri: Il Portico del mistero della seconda virtù (22 ottobre 1911) e Il mistero dei Santi Innocenti (24 marzo 1912). I libri non si vendono, gli abbonati calano. Péguy attraversa un periodo veramente oscuro e difficile. È di questi stessi anni (1910-12) la sofferenza dell’amore per una giovane donna, sorella di un collaboratore; ma saprà restare fedele a se stesso e alla sua famiglia. Gli amici di un tempo lo lasciano, i cattolici non lo riconoscono come tale perché’ resta lontano dai sacramenti in quanto sposato civilmente e senza aver fatto battezzare i figli (la moglie aveva opposto il suo rifiuto, ma dopo la sua morte arriverà alla fede). È dunque un cattolico singolare, una sorta di uomo del Medioevo: risolve i suoi problemi affidandosi a Dio, getta i suoi tre figli nelle braccia di Maria. Quando il figlio minore si ammala, fa voto di andare in pellegrinaggio a Chartres se il bambino si salva. Pierre guarisce, e in estate (giugno 1912) Péguy si mette in cammino: 144 km in tre giorni, fino alla cattedrale di Chartres.
“Lui aveva detto, con la preghiera aveva detto: Non ne posso più. Non ci capisco più nulla.
Ne ho fin sopra la testa. Non voglio saperne più nulla. Prendili. Te li do. Fanne quel che vorrai.
Colei che è stata la madre di Gesù Cristo può ben essere anche la madre di questi due maschietti e di questa bambina.
Bisogna che gli uomini abbiano un bel coraggio, per parlare così. Alla santa Vergine….
Vedi, diceva, te li do. E mi volto e scappo perché tu non me li renda. Non li voglio più. Lo vedi bene.
Come si applaudiva di aver avuto il coraggio di fare quel colpo. Lei non poteva lasciarli per la strada.
(È proprio su questo che lui contava, il furfante).
Lui ha rimesso i suoi bambini, posato tra le braccia della santa Vergine. E se n’è andato con le braccia ciondoloni.
Ci sono dei giorni nell’esistenza in cui si sente che non ci si può più contentare dei santi patroni.
Bisogna salire direttamente fino al buon Dio e alla santa Vergine”.
(Da: “Il Portico del mistero della seconda virtù”)
L’accettazione e l’acquietamento non sono tuttavia immediati né definitivi. Altre ricadute si determinano. Nondimeno, come scrive all’amico Peslouan, egli deve “riconoscere che la sua scala di valori è stata completamente rovesciata” nel corso del 1912. Egli sa ormai, come scrive ad Alain-Fournier nell’agosto 1913, poco dopo il ritorno da un secondo pellegrinaggio a Chartres, che “bisogna essere più che pazienti, bisogna abbandonarsi”. Nel dicembre 1913 esce un altro testo colossale: il poema Eve, 7644 versi. L’opera sconcerta il pubblico per l’ampiezza e i temi, e incontra solo il silenzio.
“Perché è carnale anche il soprannaturale e l’albero della grazia ha radici profonde
e s’innesta nel suol e cerca fin in fondo e l’albero della razza è pur esso immortale.
Ed anche l’eternità è nel temporale e l’albero della grazia ha radici profonde
e s’innesta nel suol e tocca fin in fondo ed anche il tempo è un tempo intemporale.
E l’albero della grazia e l’albero della natura han legato i due tronchi con nodi così solenni,
han talmente unito i loro destini fraterni da formar un’unica essenza e un’unica statura”.
(Da: “Eve”)
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Péguy si offre volontario e va a morire sul fronte. Combatte semplicemente, eroicamente. Lunghe marce di ripiegamento, da percorrere con passo di soldato, di pellegrino. Il 5 settembre 1914, il primo giorno della battaglia della Marna, a Villeroy il tenente Charles Péguy della 276ª fanteria 19ª compagnia, all’attacco in mezzo ai suoi uomini, cade colpito in fronte.
FONTE: “Charles Peguy” da “I grandi della cultura”, Jaca Book, Milano 1986.